ELENA MAZZI | Liquid Grounds

8 Maggio - 24 Agosto, 2025, Villa Arson, Nice

Da una prospettiva femminista che intreccia il geologico e il politico, il collettivo e l’individuale – se non il personalissimo – questa mostra di Saodat Ismailova ed Elena Mazzi esamina il « sol liquide », un concetto caro alla filosofa Luce Irigaray, esposto nel suo saggio del 1980, Amante marine di Friedrich Nietzsche, denso di teoria e di poesia.

Concepito come una dichiarazione d’amore rivolta al filosofo tedesco, il testo è ricco di esortazioni, tra cui quella che dà il titolo alla mostra: “Souviens-toi donc de sol liquide”. Nel tentativo di (ri)riconciliare filosoficamente Nietzsche con l’acqua – elemento di cui Irigaray sottolinea l’assenza dall’opera – e, per estensione simbolica, con il femminile, l’autrice propone di ricordare il nostro passato di creature acquatiche, lo stato essenziale di “corpo idrico” che gli esseri umani e tutti gli esseri viventi del pianeta condividono.

Termine del vocabolario della geologia, riferito a qualsiasi tipo di corpo idrico – dall’oceano al lago, dal fiume alla pozzanghera – “corpi idrici” (o “corpi d’acqua”) è stato trasformato nel concetto cardine della cosiddetta corrente “idrofemminista” dalla teorica Astrida Neimanis nel suo saggio del 2019 Bodies of Water. Fenomenologia femminista postumana. Qui Neimanis ci invita a considerare il corpo umano come un elemento inseparabile del mondo naturale e, attraverso la propria costituzione acquosa, in continuità con tutti gli altri esseri viventi.

Questa continuità tra l’umano, il vivente e l’acqua è particolarmente presente nelle opere di Saodat Ismailova (1981-), artista e regista uzbeka che lavora all’incrocio tra documentario e fiction. Per Liquid Grounds presenta l’installazione audiovisiva Stains of Oxus, prodotta da Le Fresnoy nel 2016.

L’opera racconta la relazione tra il fiume Amu Darya – una delle arterie vitali dell’Asia centrale, un tempo nota come Oxus – e le comunità che vivono lungo le sue sponde. Scorrendo tra il lago Bulunkul in Tagikistan e il Mare d’Aral in Karakalpakistan, il fiume è testimone di un rituale mattutino condiviso dagli abitanti dei diversi villaggi, che consiste nel sussurrare all’acqua i propri sogni. Il fiume diventa così non solo un archivio vivente di storie, identità e resilienza collettiva, ma anche e soprattutto un vero e proprio “corpo d’acqua” collettivo: rivisitando i propri sogni e destini, le persone che incontriamo diventano un tutt’uno con l’Oxus.

Per Liquid Grounds, l’artista italiana Elena Mazzi (1984-) presenta un corpo di sculture e un’installazione fotografica, intitolate rispettivamente Becoming and Unbecoming With (2018-2020) e Self-portrait with a whale backpack (2018). Le opere nascono dall’esperienza personale dell’artista, segnata da un incidente durante un tuffo da una scogliera, con conseguente rottura di alcune vertebre, e da un periodo di sedentarietà forzata. Sentendo il bisogno di creare una nuova connessione tra il suo corpo e il paesaggio marino, Elena Mazzi ha compiuto un lungo viaggio in Islanda, stabilendosi in un fiordo.

Il dialogo che emerge tra le opere delle due artiste è quello di due prospettive geograficamente (e geologicamente) distanti, ma vicine nel loro modo condiviso e femminista di parlare dell’ambiente e dell’umanità.

Il fine ultimo di Liquid Grounds, sia nelle opere e nei discorsi che mostra e mette in campo, sia nei suoi presupposti curatoriali, è quindi quello di presentare una doppia narrazione di trasformazione e mescolanza. O, per meglio dire, la liquefazione dell’individuo nel collettivo, del corpo nello spazio, del sé nell’altro-da-sé.